Stefano Moscardini è un fotografo che negli ultimi tre anni ha documentato chi nella vita ha deciso che il modo migliore per rilassarsi è bucarsi, farsi impiantare ganci e rimanervi appesi: la cosiddetta “sospensione corporale”, che consiste appunto nel restare sospesi a dei ganci messi in piercing momentanei fatti poco prima della sospensione.
Ci sono vari tipi di sospensione, le più emblematiche (sarà solo un caso?) sono:
Basti pensare all’origine esoterica di questa pratica per porci qualche domanda: la Danza del Sole delle tribù indiane del Nord America, apice del loro calendario spirituale. Alla base di questo rituale vi è il concetto di autosacrificio, della donazione che ogni danzatore fa del proprio corpo e del proprio sangue attraverso il danzare per diversi turni al giorno, digiunando durante i quattro giorni e, soprattutto, l’ultimo giorno per mezzo della trafittura rituale: al danzatore vengono infilati due pezzetti di osso di bisonte acuminati, dopo che sono stati praticati delle incisione con artigli di aquila) sotto la pelle del petto; i due ossi vengono legati a delle funi annodate all’albero sacro posto al centro dello spazio consacrato in cui si svolge il rito; colui che balla si deve liberare tirando le funi e strappando le proprie carni. Il dolore prodotto è molto forte e spesso i danzatori riescono a sopportarlo solo cadendo in una sorta di trance in cui possono ricevere delle visioni. Lo scopo di tutto questo era ricollegarsi alla divinità in una sorta di unione virtuale con lo Spirito solare, dunque con il Grande Spirito.
È nato così il progetto fotografico “Suspension of Disbelief” (“Sospensione dell’incredulità”).
Alla domanda sul perché di questa stravagante idea e su cosa spinge le persone a fare tutto questo, Stefano risponde:
<<L’idea di realizzare un reportage è nata nel 2009. Lavoravo in uno studio di provincia, ero molto stanco e avevo bisogno di qualcosa di nuovo. Tutto quello che mi serviva era un soggetto forte, qualcosa che mi incuriosisse e che potesse interessare un pubblico. […] Le persone decidono di farsi agganciare per mille motivi. Conosco persone che lo fanno per puro e semplice divertimento e altre per scaricare lo stress. Ci sono anche motivazioni più profonde, ovviamente, come la ricerca di un contatto più diretto con la propria corporeità e i propri limiti, compreso quello del dolore. E poi ci sono quelli che lo fanno semplicemente per dimostrare a se stessi o agli altri che sono in grado di farlo>>.
Ma leggiamo alcune testimonianze di chi pratica in prima persona questa nuova forma di “arte”:
<<Io voglio vedere com’è volare, com’è non essere, in un certo senso, vincolati al proprio corpo. Avere e non avere il controllo della propria fisicità. E capire se ho la capacità di gestire il dolore o se mi farò gestire da lui… capire fino dove la mente (edil nostro corpo) può spingersi.>>
«È il mio modo per isolarmi e guardarmi dentro. C’è chi fa yoga, chi fa sport, chi suona uno strumento: io porto il mio corpo al limite delle sue possibilità per poter entrare in una dimensione “altra” e sentirmi veramente, ascoltarmi, lasciare la superficialità e il cinismo fuori e avere finalmente la possibilità di osservarmi e capirmi. Quando il dolore raggiunge una certa soglia l’adrenalina sale al massimo, la vista ti si annebbia, non senti più voci e rumori e hai modo di parlare con te stesso. Lavoro 12 ore al giorno e non mi fermo mai: la sospensione mi permette di raggiungere la pace. Riesco a vedere luoghi e sentire emozioni che nella vita di tutti i giorni non ho mai occasione di provare» .
«Queste sono le prime sospensioni che ho fatto e che mi hanno lasciato un’impronta profonda nello spirito. Quando mi sono fatta inserire i primi uncini l’ho fatto per pura curiosità, ma quando sono stata issata l’emozione è stata così forte da farmi scendere una lacrima di gioia.
Ecco invece come la psichiatra e psicoterapeuta Rossella Valdrè analizza il problema:
<<Nella body suspension è forte l’esigenza di chi la pratica di stupire, provocare, comparire. Questa è una tipica componente adolescenziale (esisto se vengo visto) quando per adolescenza si intende un’età psicologica che va oltre i limiti cronologici. E’ fondamentale la primarietà del corpo nelle vite delle persone del “club” della body suspension e l’annullamento del mezzo comunicativo per eccellenza: la parola. Un rito dove il corpo si illude inconsciamente di supplire al fallimento della comunicazione attraverso il linguaggio.
E da qui al delirio di onnipotenza il passo è breve. Avere il completo dominio sul proprio corpo, sapere di essere più forti del dolore significa sentirsi superiori agli altri e a volte anche agli eventi tanto da convincersi che per chi pratica le sospensioni le regole del dolore e della gravità non si applichino.
Ma è inevitabile che coloro che praticano la body suspension abbiano una personalità in qualche modo autolesionista e trovino nelle sospensioni una via per sfogare e legittimare la propria tendenza a farsi del male per riconoscere una propria identità. L’autotortura, la frustrazione e l’abuso servono a far sentire queste persone vive e ottenere la dimostrazione di avere il controllo almeno del proprio corpo perché per la psiche il vuoto è intollerabile, meglio un’identità negativa che nessuna identità>>.
Ma cosa succede da un punto di vista strettamente psicologico? Che cosa può spingere una persona a cercare emozioni attraverso il dolore? È semplice trasgressione, voglia di evadere, o c’è un reale e patologico disagio alla base? Ce lo spiega lo psicologo Daniele Bruni:
«La motivazione dei comportamenti auto lesivi, può essere rintracciata nella stessa esperienza riferita dai soggetti. Queste persone dicono di sentire alle volte il bisogno di provocarsi del dolore fisico per spegnere e liberarsi di un dolore mentale ed emotivo. Il meccanismo principe è quello della dissociazione: il dolore fisico, con la sua brutale dirompenza nel reale, spegne e mette a tacere tutto quello che abbiamo intorno e nella mente, di reale o di immaginato. Ed ecco che il dolore fisico diventa un sollievo, addirittura un piacere, che porta con sè, ben oltre la conclusione dell’esperienza, un dolce ricordo della condizione di beatitudine».
Ancora una volta ci rendiamo conto che sempre più adolescenti (e non) sentono un grande vuoto dentro, vuoto che tentano di colmare con le tecniche più estreme e, quindi, anche con il dolore e la sofferenza. La strada, invece, potrebbe essere molto più semplice … la stessa che ha tracciato chi si è fatto appendere ad un croce, non per esibizionismo o per autolesionismo, ma per amore, amore verso un’umanità che, invece, è sempre più propensa a guardare da altre parti piuttosto che a sperimentare la potenza, la forza e l’amore del cristianesimo.
Articolo scritto il 08/06/2015 da Notizie dal fronte
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